Durante l crisi pandemica è emersa una visione capace di sanare i divari con la rorganizzazione dentro e fuori i contesti urbani. La reazione è stata di conservazione. Ma un altro futuro è possibile: oltre le città, cresce una nuova sfida culturale.
Cento città
Le città italiane hanno dato un contributo straordinario alla cultura e al progresso del paese, nonché alla crescita economica dell’intero continente. Fin dall’evo moderno hanno contribuito al formarsi stesso dell’idea di città come luogo di accumulazione, riproduzione e moltiplicazione del capitale. Contemporaneamente hanno alimentato il mito della città come spazio di liberazione dell’individuo. La contaminazione fra saperi e persone, l’ibridazione delle esperienze e delle economie, hanno fatto delle città italiane il luogo di sintesi fra le idee che da millenni attraversano la penisola. Il risultato è una cultura civica del tutto peculiare, alimentata dal perenne crearsi di nuovi bisogni e aspirazioni – economici, sociali, politici, artistici – e da una continua ricerca artigianale di dar loro soddisfazione. Le città sarebbero laboratori permanenti di modernità.
Il mito delle città come luoghi di sperimentazione, come organismi in grado di autoalimentarsi, indipendenti dal contesto perché in grado di trovare al proprio interno soluzioni a nuovi bisogni, il mito delle città innovatrici che alimentano lo sviluppo, è all’origine del grande successo del modello della metropoli nella competizione globale al cuore dell’ideologia di sviluppo tardo neoliberista, sinonimo stesso dell’accumulazione capitalistica.
Nella vita delle città italiane, tuttavia, si sperimenta ben poco questo immaginario. La distanza tra quella che è evidentemente un’ideologia e la vita quotidiana appare in maniera plastica. È forte il sospetto che l’adozione acritica di questo paradigma di sviluppo, innanzitutto nelle politiche pubbliche, favorisca la crescita delle diseguaglianze sociali e territoriali. In Italia il modello di urbanizzazione è legato a caratteristiche geografiche articolate: le città italiane sono tante, di dimensioni contenute, sono vicine, interdipendenti l’una dalle altre, vivono un rapporto osmotico con i territori circostanti. La maggioranza della popolazione è distribuita in una miriade di centri molto caratterizzati dal punto di vista produttivo, economico e sociale, ricuciti dal sistema di infrastrutture della mobilità in sistemi di città. L’altissima specializzazione produttiva manifatturiera dei luoghi, il peso del settore primario e la diversificazione di una produzione agricola orientata all’esportazione hanno fatto per decenni dell’Italia un paese leader, nonostante le dimensioni tutto sommato contenute. Insomma l’Italia è un paese piccolo ma forte delle sue diversità.
Squilibri e divari non sono dinamiche naturali
A partire dal 2008 sono riprese le dinamiche migratorie interne secondo le direttrici sud-nord e nelle aree rurali-aree variamente urbanizzate (città, sprawl, coste, fondovalli congestionati). Secondo i modelli classici di sviluppo la migrazione risponde a un fenomeno quasi naturale al quale non esiste alternativa. Sappiamo invece di essere di fronte a esiti di scelte consapevoli: all’origine della crescita delle diseguaglianze sociali e territoriali, che hanno favorito indirettamente i fenomeni migratori in direzione delle città, delle aree produttive e meglio servite del centro-nord del paese, secondo molti autori ci sono teorie economiche regressive che indirizzano gli investimenti verso i segmenti più ricchi della società e, in ambito geografico, del territorio, perché vengano poi filtrati e gòcciolino (trickle-down) sul resto della società e del paese. Queste teorie hanno prodotto politiche di concentrazione degli investimenti pubblici e privati nelle poche aree ad alta crescita economica del paese, nello spazio della cosiddetta economia dei flussi. Allo stesso tempo le politiche di austerità e i tagli alla spesa pubblica, presentate come egualitarie perché imparziali, hanno prodotto effetti diversificati sulla varietà di territori che caratterizzano il paese morfologicamente più “rugoso” d’Europa. Non tenendo conto della diversità dei punti di partenza, queste politiche si sono mostrate ben poco eque. Nelle aree marginali si è assistito al decadimento della dotazione dei servizi per i cittadini e al contrarsi delle opportunità di lavoro. Abbiamo visto la concentrazione degli investimenti privati e pubblici in pochi km quadrati di territorio, e l’aumento della porzione di paese marginale, dal futuro incerto, oggetto di politiche di tipo compensativo o emergenziale a partire dagli immediati confini delle città compatte. Il fatto che sulle periferie si intervenga con interventi episodici (con bandi, come il Bando Periferie) e non con politiche ordinarie, dà contezza di questa scelta.
Covid, tecnologia e crisi delle città
Secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, in Italia si è passati in modo repentino da 570 mila a oltre 6 milioni di smartworkers. Il combinato di tecnologia e pandemia è stato dirompente per le città e per il modello di sviluppo ad esse correlato, mettendone a rischio il ruolo di guida e indebolendone il valore economico.
La diffusione dello smart-working, seppur emergenziale, ha aperto a processi di riorganizzazione territoriale del lavoro impensabili fino pochi mesi fa. In molti luoghi il diffondersi spontaneo di economie di prossimità in reazione alle fasi di lockdown ha favorito la nascita di spazi dove il lavoratore da remoto non è costretto a lavorare a casa né in ufficio, ma in un terzo luogo adeguatamente attrezzato vicino al proprio domicilio, nel quale è possibile generare valore proprio dall’interscambio con attività diverse che hanno come tratto comune l’appartenenza ad uno stesso ecosistema produttivo territoriale.
Il progetto di Near working annunciato dal Comune di Milano nel piano operativo per il lavoro agile, ispirato al modello di città del quarto d’ora lanciato a Parigi dalla Sindaca Anne Hidalgo, punta a spostare i dipendenti delle PA in 70 Fablab, uffici di quartiere vicino a casa, con l’obiettivo di rivitalizzare anche commercialmente le aree periferiche della città. Il progetto Sea working, un ufficio sul mare del Comune di Brindisi punta ad attrarre dal nord lavoratori “senza vincolo di luogo” e rientra nel fenomeno, anche mediatico, di southworking. Il rapporto Svimez 2020 ha stimato che nel corso del primo lockdown circa 45mila persone impiegate presso 150 grandi imprese al nord siano tornate nelle proprie città di origine del sud, proprio in virtù delle opportunità aperte dallo smart-working emergenziale. Se si tiene conto anche delle PMI, lo Svimez stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato almeno 100mila lavoratori meridionali, una fetta rilevante dei circa due milioni gli occupati meridionali che attualmente lavorano nel centro-nord.
Progressivamente è cresciuta la convinzione che politiche pubbliche sistemiche possono far leva sul lavoro a distanza per combattere gli squilibri territoriali e la carenza di servizi di cittadinanza essenziali a buona parte dei cittadini, inadeguati tanto nelle aree spopolate per una questione di costi, quanto in quelle congestionate per un eccesso di domanda. Questo approccio sembra raggiungere oggi una maggiore maturità nel Piano strategico per la promozione del lavoro agile della Provincia autonoma di Trento. Con la diffusione dello smart-working, il Piano intende ripensare gli equilibri territoriali all’interno dell’intero territorio provinciale, favorendo il decongestionamento, riducendo l’inquinamento dei fondovalli e permettendo al welfare di raggiungere quei soggetti che vivono nelle aree interne della provincia autonoma.
Sembrerebbe che il combinato di tecnologia ed emergenza sanitaria sia riuscito finalmente a sciogliere uno dei problemi più antichi della programmazione territoriale: la necessità di una più equilibrata distribuzione delle attività e della popolazione sul territorio, con la riattivazione dei vuoti e la diminuzione della pressione antropica sulle strutture sociali e ambientali nei nodi del sistema.
La scelta del governo: la normalizzazione
La via d’uscita dallo shock epidemico approntata dal governo Draghi, però, non sembra andare in questa direzione. Il Forum Diseguaglianze e Diversità a suo tempo ha ipotizzato tre scenari plausibili per il post-Covid. Il primo scenario, un (impossibile) ritorno alla normalità; il secondo, chiamato “sicurezza e identità”, una soluzione sostanzialmente autoritaria, che approfittando dello shock impone un potere fortemente centralista che controlla e sanziona, che cancella il conflitto sociale. Il terzo scenario, “un futuro più giusto di prima”, che supera il modello neoliberale e lavora in direzione della riduzione delle diseguaglianze e di una maggiore partecipazione democratica.
Una nuova visione, concentrata sull’intreccio di temi ambientali, in grado di coniugare senso civico, spirito di servizio, pragmatismo ed efficienza economica, è emersa con forza durante la crisi pandemica. Già negli anni passati questa visione ha riportato alcune vittorie sui territori: dalla chiusura di impianti inquinanti, alla costruzione di politiche per un più equo accesso ai diritti di cittadinanza, alla rigenerazione ad uso sociale degli spazi abbandonati e destinati alla speculazione, alla nascita di nuove imprese che hanno fatto di questo intreccio il motore della loro crescita. Questa visione è stata percepita come una minaccia da un’inedita alleanza fra poteri forti, pezzi di politica e accademia, alte burocrazie e la quasi totalità dei media. Di fronte all’emergere di un paese molto articolato, la reazione della classe dirigente del paese è stata di profonda conservazione.
Infatti per la prima volta nella storia una nuova visione rischia di diventare egemone nel senso comune. Così una reazione rabbiosa, di fronte al paventato crollo del mercato immobiliare del centro delle città, cancella lo smart-working ed espone la popolazione a nuovo contagio. Sembra riprendere vigore l’antica prassi trasformista che punta a piegare il vento di cambiamento alla stabilizzazione degli equilibri tradizionali di potere, attraverso una politica economica regressiva. Si torna a concentrare gli investimenti solo nei segmenti più ricchi della società e del territorio. Per fare scuole più selettive, università competitive, ospedali all’avanguardia, attrezzare siti culturali per eventi remunerativi, al prezzo di un aumento del consumo del suolo, della riduzione dei servizi pubblici, della compressione del costo del lavoro, con buona pace della transizione ecologica.
Ormai sappiamo che sono proprio queste le politiche all’origine della crescita delle diseguaglianze. Non solo: di fronte a una crisi inattesa e globale queste politiche si sono rivelate non in grado di sopportare lo stress della trasformazione repentina. Ma una “controrivoluzione preventiva”, prassi non nuova nella storia dei rapporti di classe nel nostro paese, punta ad azzerare le speranze di cambiamento.
Esiste una via tutta italiana tra la violenza del neoliberismo darwinista e la democrazia partecipativa. È il paternalismo delle classi dirigenti, la strada scelta con il Recovery Plan per consolidare i rapporti di potere tradizionali. La forma istituzionale che prende è quella del neocentralismo. Le classi dirigenti sanno come fare, si affidano a tecnici o a pragmatici tuttofare, costruiscono il consenso attraverso una società opportunamente organizzata in lobbies, dove vincono le più forti. Sono io il sapere, dicono gli uffici centrali, ma mi riservo la possibilità di derogare, ma solo per te, e se ti comporti bene avrai il tuo spazio. Chi mette in dubbio questa affermazione, complice il conformismo dei media, va incontro all’isolamento e all’oblio.
Il salto culturale: una nuova sfida
In Italia convivono aree tristemente spopolate e aree fortemente congestionate. Il Covid è stato un detonatore che ha permesso di vedere e sperimentare nuove forme, opzioni alternative non solo di abitare, ma per la prima volta dopo decenni, alternative a quello che si chiamava “pensiero unico”. Il realismo capitalista di Fischer. Oggi, dunque, è possibile chiedersi: esiste un’alternativa al modello economico che ruota intorno al modello città globale? Si possono ridurre la pressione lavorativa, l’inquinamento, il senso di precarietà, il costo della vita, la diffusione dei disturbi mentali? Si può riportare il tema del benessere, della felicità dell’individuo, al centro della riflessione politica?
Il cambiamento in atto richiede uno sforzo di elaborazione culturale per affrontare temi nuovi, quali i diritti e il lavoro. Ma c’è bisogno anche di un forte aggiornamento della proposta politica e delle pratiche di governo, l’abbandono di vecchi codici e il coraggio di fare scelte radicali in un quadro caratterizzato da indeterminatezza. Consci del fatto che il modello economico neoliberista è stanco, insidiato dalle pratiche sui territori, in perdita di consenso, ma determinato a consolidare le proprie rendite di posizione, è possibile immaginare un futuro sostenibile, anche economicamente, di benessere, non centrato sui nodi, ma sulle reti, anche virtuali, tra i luoghi. Si aprono i termini per una nuova sfida culturale.
L’articolo originale è uscito su sul periodico cartaceo Dinamoprint anno 2 | n.04 | dicembre 2021 ed è acquistabile qui