06/10/2020
Dove abiterai?
È un pomeriggio piovoso e mi trovo a camminare nell’East London vagando da un interno all’altro, nel tentativo di arginare l’umidità che, risalendo dalle scarpe fradice, sembra avvitarsi intorno alle ossa. Sulle superfici di alluminio delle pozzanghere, guardo il riflesso colorato del susseguirsi delle insegne delle piccole librerie, di esposizioni d’arte, dei centri culturali di quartiere, dei negozi di musica, delle sale studio delle università. Il turbinare di immagini, parole, suoni, il continuo fluire intorno a me di persone diverse per censo, provenienza, sentire, che si urtano casualmente in luoghi rigorosamente gratuiti, mi scaldano il cuore, e, letteralmente, anche gli arti. La cultura, senza cercarla, accessibile ad ogni passo, come fosse il paesaggio naturale della città, di una città che coltiva (o almeno ha lungamente coltivato) diversità, libera l’immaginazione, apre nuovi orizzonti, nutre il corpo. Una banalità che non smette di stupirmi. Torno a casa all’imbrunire, stordito ed entusiasta, “John, è unica questa città, in ogni angolo si respira letteratura, arte, musica. Grazie per l’ospitalità, ogni volta per me è una scoperta”. John, che insegna storia contemporanea all’università, mi indica il cielo compatto e senza orizzonte, fuori dalle finestre, e subito dopo, molti metri più giù, il traffico impazzito nella pioggia, nel quale sfrecciano frenetiche biciclette piene di lucine, il sogno senza speranza di uno spazio umano ritrovato in una delle metropoli più alienanti del mondo. Mi dice “se non ci fosse cultura qui, cosa rimarrebbe? Sarebbe un inferno, andremmo via tutti”.
E tutto d’un tratto sento riversarsi su di me un senso di angoscia. Percepisco, estesa per migliaia di km, una rete di strade tutte uguali, di supermercati che all’ora di cena si riempiono di individui soli, dove si acquistano casse di birra per dimenticare lo squallore di una vita segnata dalla competizione, che premia uno e condanna mille. La claustrofobia di un luogo dal quale, per quanto grande possa essere, non c’è possibilità di fuga, se non prendendo un aereo.
Il paesaggio di certe zone delle città del dopo Covid è desolante. A Londra, come a Parigi o a New York. Nella zona di Roma dove abito, da sempre una delle più vivaci dal punto di vista culturale, la musica dal vivo è sparita, le piccole librerie combattono la loro ultima battaglia per la sopravvivenza, a biblioteche e musei si accede solo su prenotazione, i cinema e i teatri sono ancora chiusi, e il rischio che non tornino più a riaprire e che siano rimpiazzati (come già successo in altre parti della città) da sale giochi e supermercati è più che reale. Devastato da una monocultura turistica, il centro della mia città si è svuotato. I proprietari delle case, i commercianti, arroccati nell’attesa di un ritorno alla ‘normalità’ che con tutta evidenza non ci sarà, se non a costo di lacerazioni sociali terribili, tengono i prezzi alti, impedendo così un ripopolamento e ripensamento degli spazi del vivere insieme. Nel frattempo la vita si fa più dura. La povertà dilaga nelle piazze, specialmente quella dei cittadini abbandonati dalle istituzioni, i migranti in testa, e assedia quello che rimane del quartiere, il mercato, gli spazi pubblici. Che senso ha vivere in un luogo così, se smette di essere un luogo di condivisione, di ibridazione di diversità, di scambio?
Già prima della pandemia, da quando il secondo paradiso, quello artificiale, che ha soppiantato nelle speranze il primo, ha cominciato a mostrare la sua faccia individualista, una nuova generazione di umani ha cominciato a colonizzare gli spazi spopolati del nostro paese, come pionieri, convinti della necessità di una ricomposizione fra il vissuto cittadino organizzato intorno competizione economica e il mondo naturale, fonte continua di ispirazione, dove è possibile sottrarsi al ricatto della sopravvivenza. Non sono solo dei sognatori, sperimentano e si muovono alla ricerca di una sintesi operativa fra questi mondi. E oggi anche nelle città, come per le aree lontane di cui mi occupo da molti anni, lo spopolamento offre nuovi spazi per sperimentare combinazioni inedite, un cantiere, al riparo dalla crescente diseguaglianza che affligge l’umanità, per progettare il futuro.
Ancora non esiste, ma già so con certezza che è lì che abiterò. Un luogo dove sarà risolta la tensione fra natura e cultura, fra interno ed esterno, dove le scienze umane e quelle scientifiche progrediranno insieme, la biologia e la letteratura parleranno la stessa lingua, tecnologia e arte saranno avvolte l’un l’altra, si potrà vivere e respirare la grandezza del mondo da una casa di città, e costruire il futuro dell’umanità dalla cima di una montagna. Curare il mondo e coltivare spazi interiori, in uno stesso momento. Ma non lo potrò fare da solo, non potrà nessun progetto di redenzione individuale, e nemmeno una somma di progetti singoli. La domanda giusta non è dove abiterò, ma dove abiteremo.
- articolo originale sul Città dell’arte Journal del 6/10/2020 DOVE ABITERAI?